La leggenda di Glauco

Glauco e Scilla – Agostino Carracci – 1597 – Farnese Gallery – Rome

Tratto da: Miti e Leggende di Sicilia
di Salvino Greco
Dario Flaccovio Editore

Si contendono la paternità di questa leggenda diverse località del Mediterraneo. Noi la collochiamo nell’area del Peloro, seguendo una delle tradizioni più diffuse.

LA VICENDA

Racconta un’antica leggenda che nell’era grande della preistoria, venne a Capo Peloro, nella cuspide nord-orientale della Sicilia, un giovane della Beozia di nome Glauco, ritenuto figlio di Nettuno. Aiutato da alcuni amici, tagliò sui monti intorno alcuni alberi di pino e con il legno ricavato costruì una barca snella e veloce che dipinse con i colori del mare, e cioè di azzurro e di verde. Allora, come mestiere, si mise a fare il pescatore e divenne così bravo e così abile che le sue reti, alla fine di ogni pesca, risultavano sempre piene di una quantità enorme di pesci. Glauco non tratteneva mai per sè tutta quell’abbondanza di pescato, ma la ripartiva con gli amici e per sè teneva solo quanto bastava per nutrirsi e vivere alla giornata. Oltre ad essere generoso e di buon cuore, Glauco era anche bello come un dio. Aveva gli occhi azzurri, con sopracciglia folte e arcuate, il naso dritto e regolare, e la bocca rosea e morbida come quella di un fanciullo, mentre una barba corta e riccioluta gli incorniciava il mento, deliziosamente. I suoi capelli erano lunghi e sottili come fili di seta e gli scendevano sulle spalle morbidi e carezzevoli, e quando camminava oscillavano ad ogni suo movimento e sotto al sole cambiavano di colore, passando dal biondo al ramato.

Tutte le nereidi, Tetide, Anfitride, Panope e la stessa Galatea bianca come il latte, assieme alle sirene ammaliatrici e alle sorridenti ninfette delle acque, venivano dalle parti del Peloro per conoscerlo e parlargli. Spesso, alcune di esse, si spingevano fin sulla spiaggia e più d’una, avvinta dal suo fascino, gli sorrideva con invitante simpatia. Glauco era gioioso con tutte e scherzava come fa un buon compagno di giochi. Ma in particolare non guardava nessuna, contento solo di godersi la scanzonata libertà della sua verde giovinezza e quel senso giocondo di disporre pienamente e liberamente del suo tempo e dei suoi pensieri.

Un giorno, assieme alle sirene e alle ninfe, dalle parti di capo Peloro venne la figlia di Forco, la dolce e romantica Scilla, fanciulla bellissima e soave, piena di vita e desiosa d’amore. Nel suo piccolo cuore pulsavano i sogni di giovinetta e tutta lei stessa, ancora, s’infiammava al pensiero del suo ipotetico futuro amore.
Quando Scilla vide Glauco, sentì il cuore batterle più forte e il sangue le salì alle gote e le imporporò il viso di desiderio. Da quel momento, ogni giorno, sul far dell’alba, lei cominciò a venire alla riva del Peloro ad aspettare con il cuore innamorato e palpitante che il biondo Glauco venisse a preparare la sua barca per la pesca. Poi se ne restava ansiosa ad attenderlo fino al tramonto, fino a quando non lo vedeva tornare con le ceste colme di pesci ed avviarsi poco distante, alla sua piccola dimora. Scilla era timida e mai avrebbe osato dichiarargli il suo amore. Perciò si accontentava solo di guardarlo, di sorridergli e di sperare. Glauco, invece, la guardava e le sorrideva con simpatia. E qualche volta, forse, dovette anche rivolgerle un sorriso più affettuoso o accennarle una carezza, e Scilla s’infiammò ancora di più, cullandosi nel sogno di quel suo ingenuo amore, puro e sincero come è sempre puro e sincero il primo amore.

Un giorno passò dalle parti del Peloro la maga Circe, la bianca fanciulla dalla pelle vellutata come un petalo di rosa, ma volubile come una frasca al vento, sempre languida e desiosa di ebbrezze d’amore. Scilla l’ebbe per amica, e assieme andarono a fare i bagni nel laghetto dei Margi. A sera, poi, andavano a passeggiare lungo le rive dei Ganzirri, ad ammirare il verde-azzurro fluttuare delle onde del mare che dal Tirreno correvano lente ma costanti verso il mare Ionio.

Scilla, un giorno, confidò a Circe il suo amore per Glauco e in cambio ebbe consigli e una promessa d’aiuto.
– Fammi vedere questo tuo straordinario giovane! – le disse la maga – Ed io t’insegnerò il modo di conquistarlo…
Il giorno dopo Circe e Scilla si recarono sulla spiaggia. Glauco giunse poco dopo. Nella lucentezza dell’alba alle due donne egli apparve bello come un dio, agile come un’atleta e smagliante in tutta la sua giovinezza, esaltata dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, profondi come il mare. Circe ne rimase ammaliata e se ne innamorò.
– Bello è Glauco, figlio di Nettuno! – pensò estasiata nella sua mente – È l’essere più bello che io abbia mai visto… Ho deciso! Egli fa giusto al caso mio… È l’uomo adatto al mio furente amore… Lo farò mio amante!…
– E tu! – disse poi a voce alta, rivolta a Scilla – Cercati un altro uomo, perchè Glauco dai capelli biondi e dagli occhi di mare, ora appartiene a me!…

Scilla tremò. Quelle parole furono per lei una sentenza di morte. Come poteva, l’ingrata maga, rubarle il suo amore? E non s’accorgeva che Glauco per lei rappresentava la vita? Male aveva fatto a confidarle i suoi sentimenti. Sentì il cuore quasi fermarsi e poco mancò che non morisse.
E continuò invano a supplicarla. Per farle piacere la chiamò con tutti gli aggettivi più belli che conosceva. Si fece umile e piccola, strisciando quasi ai suoi piedi. Dapprima Circe l’ascoltò ridendo, beffandosi dei suoi sentimenti di fanciulla.
Poi, seccata, avvelenò il fonte in cui Scilla sovente veniva a bagnarsi e quindi, impugnata una bacchetta magica, la toccò su una spalla. E avvenne l’incredibile. Ingannata dalla maga, Scilla cominciò a trasformarsi in un mostro marino, con sei teste latranti e dodici orribili e deformi gambe. La sua pelle, prima liscia e delicata come un petalo di rosa, cominciò a coprirsi di squame ruvide e lucenti, e la sua voce, prima melodiosa e dolce, ora divenne rauca e abbaiante.
Appena Scilla s’accorse d’essere divenuta un mostro, non resse alla disperazione e si gettò in mare. Il suo cuore si trasformò in macigno e s’incrudelì al punto da costringerla a far strage dei naviganti che avevano la ventura di passare dalle parti della sua caverna. La stessa Circe, più tardi, descrivendola ad Ulisse, la definì un: “…prodigio immortale uno spavento, un orrore selvaggio con cui non si lotta: contro di lei non c’è riparo bisogna fuggire”.

Intanto la perfida Circe se la spassava con Glauco. Ma quando venne la primavera, volubile com’era, si stancò del suo amore e lo lasciò. Prima voleva tramutarlo in un animale, come aveva fatto con i suoi passati amanti, ma non potè farlo perchè Glauco era figlio di Nettuno. Perciò lo lasciò senza neanche dirgli addio e se ne tornò nella sua isola di Eea. Quando Glauco s’accorse d’essere stato abbandonato, cadde in una tristezza profonda. Ma la sua amarezza divenne sofferenza quando seppe della brutta fine di Scilla, di quella piccola creatura dalla voce melodiosa che tutte le mattine per tanto tempo, lo aveva atteso sulle rive del Peloro e che la perfida Circe, per gelosia e con l’inganno, aveva cambiato in un orrido mostro marino.
– Oh grandi dei! – inveì in cuor suo – Perchè mi dannaste a così crudele destino?
Ora, ogni giorno, Glauco aveva preso l’abitudine di uscire con la barca fuori dalle acque dello Stretto e di avvicinarsi all’antro di Scilla. Quando giungeva nei pressi, la chiamava per nome e cominciava a rammentarle il tempo felice dei loro primi incontri. L’orrido mostro, più di una volta, fu sul punto d’avventarsi contro con le sue bocche latranti ed inghiottirlo. Ma, pur se soggetta alla demenza canina, forse, nel cuore, manteneva ancora qualcosa del suo amore di donna. Così, dopo aver latrato minacciosa, finiva per acquietarsi e rientrava nelle buie caverne marine mentre Glauco, afflitto e disperato, tornava alla spiaggia dello Stretto.

E intanto passarono gli anni. Glauco, sempre più malinconico, divenne un vecchio curvo, pieno di ricordi e di rimorsi. Egli, non si allontanò mai più dalle rive dello Stretto e continuò a vivere solitario ed eremita, vivendo solo del prodotto della sua pesca, per fortuna, sempre abbondante. I capelli e la barba gli erano incanutiti, ma gli occhi erano rimasti vivi e lucenti, forse un poco tristi a causa del tenero e mai scomparso ricordo di Scilla quando, ancora giovinetta, dolce e bellissima, si era perdutamente innamorata di lui.
Glauco, ora, era anche stanco. Ogni giorno, tornando dal mare, remava sempre più lentamente e con più fatica. Una volta, mentre tornava da una pesca lontana, vide in mezzo al mare un’isola bellissima piena d’alberi e di fiori. Persino sul bagnasciuga vi cresceva un’erbetta verde e argentata, soffice e molle come un bellissimo tappeto di Persia.
Glauco, improvvisamente, si sentì stanco e triste. Accostò con la barca a quell’isola sconosciuta, tirò a secco le reti e sedette sulla soffice erbetta, cominciando a selezionare i pesci pescati. E allora egli vide una cosa incredibile, meravigliosa. Quei pesci, appena toccavano quell’erba, tornavano a vivere, e a piccoli balzi saltellavano verso il mare, e vi si tuffavano dentro riacquistando vita e vigore.
Glauco restò sbalordito. Mai, in vita sua, aveva visto o sentito parlare di cose simili. Ora era vecchio e stanco, e anche un tantino miope. Ma quello che vedeva era realtà e non sogno. Colse un ciuffo di quell’erba e lo mangiò. Oh, che sapore bellissimo aveva quell alga! Nella sua mente tornò il ricordo degli aromi dei cibi mangiati nella prima fanciullezza, e gli parve d’avere in bocca zucchero e miele ed elisir, e tutte le leccornie che aveva mangiato da bambino. E allora colse altri ciuffi di quell’erba e li mangiò e così di seguito, con ingordigia, fino a divenire sazio.
E allora in lui s’avverò il miracolo. D’un tratto il suo corpo ebbe un fremito. I suoi piedi cominciarono a colorarsi di verde e poi le gambe, le braccia, il busto e la faccia, divennero verdi come il colore di quell’alga che aveva mangiato.
La sua barba cominciò ad assumere un bel colore verde e su tutto il corpo gli spuntarono peli verdi e lunghi, sottili e fini come fili di seta. II cuore di Glauco s’empì di gioia, mentre una forza incontenibile, più grande della sua stessa volontà, lo fece alzare da terra e correre verso il mare, dentro al quale s’immerse con un gran salto.
Oh, il grande dolce sapore del mare, l’cstasi sublime in cui ogni sentimento s’annulla e la pace si confonde con la gioia! Lievi le onde lo accarezzarono sfiorandolo e Glauco, il biondo ceruleo Glauco, divenne un tritone del mare, immortale e profetico.
Sul fondo egli vide una casa attorniata da un giardino bellissimo, pieno di alghe e di coralli, un caleidoscopio di colori stupendi, mentre attorno si udiva una musica dolcissima e allettante. Vi entrò e ne fece la sua reggia.
Da quel giorno Glauco volle restare per sempre nel mare dello Stretto. Si rivide con Scilla? Le parlò? Cessò, per questo, Scilla, di far strage dei naviganti? Dice la leggenda che anche ai tempi nostri, quando infuria la tempesta, Glauco solleva il capo al di sopra delle onde e subito, il mare si fa calmo e diventa invitante, come lo era nella preistoria, quando Scilla era ancora una fanciulla bellissima e non un feroce mostro mari no, con dodici gambe e sei latranti teste canine.

PERSONAGGI

GLAUCO:
Mitico pescatore della Beozia, secondo alcuni figlio di Nettuno ed Eutea. Vedendo che alcuni pesci posti sopra una certa erbetta riprendevano vigore e saltellando ritornavano in mare, volle mangiarne anch’egli, e subito si tramutò in tritone marino…

SCILLA:
Innamorata di Glauco, pregò la maga Circe di convincerlo ad amarla. Circe, invece, conosciuto Glauco, se ne innamorò follemente, avvelenò il fonte dove Scilla soleva bagnarsi e la trasformò in un mostro marino con sei teste canine.

CIRCE:
Maga figlia del Giorno e della Notte, o del Sole e della Luna, o del Sole e Perseide, sorella del re Oeta. Cacciata dal suo paese per aver avvelenato il marito, re dei Sarmati, venne ad abitare nell’isola di Ea od Oea o di Acae. Accolse Ulisse ramingo nella sua reggia e mutò i suoi compagni in varie bestie.

 

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